Una riflessione su lingua e territorio

Quando parliamo di lingue, dobbiamo riferirci costantemente e concretamente al territorio su cui vengono parlate, altrimenti il nostro discorso rischia di essere avulso dalla realtà e parlare, come si suol dire, “del sesso degli angeli”. E per territorio, non intendiamo qui soltanto l’appartenenza etnica o residenziale a un luogo ben determinato, ma anche la condivisione fisica del suo destino, l’identificazione somatica nel bene e nel male con esso.

È proprio con questo modo di intendere una lingua e un territorio che spesso abbiamo polemizzato con poeti di madre lingua che magnificavano a parole i nostri luoghi e la cultura tradizionale, ma non muovevano mai un dito per difenderli – come se questo, in qualità di poeti, di artisti (?), non li riguardasse – anche quando essi subivano attacchi fisici costanti da parte delle lobby del consumo e della speculazione. Scrivere poesie o romanzi nella lingua degli antenati mentre ci stanno portando via a fette la terra da sotto i piedi senza che ce ne accorgiamo è un atto di narcisismo e il peggior servizio che possiamo fare alla conservazione della cultura tradizionale.

Del resto che spirito identitario può avere un territorio che non sa difendersi, che non cerca di recuperare se stesso in toto, cultura e prassi, che non sa contrapporre un modello alternativo, con profonde radici nel nostro passato, al modello di sviluppo attuale? Un modello che riscopra l’uomo e la sua interrelazione, rendendola nuovamente fisica (sottraendola, dunque, al becerismo virtuale dei social network), e forme di convivenza che, oltre a scacciare le paure del presente, non siano realtà esclusive, ma inclusive. Un modello comunitario di stampo arcaico, che sappia contemperare nello stesso tempo il senso di responsabilità collettiva del mondo tribale e i diritti individuali propri del modernismo illuminista; e questo per difendere l’individuo e la sua diversità nel contesto collettivo, ma non il suo individualismo come forma di appropriazione e di esercizio del potere.

Fatto questo necessario chiarimento, è importante riflettere su quali sono i modi più incisivi per trasmettere una cultura e la sua lingua e per far sì che rimanga viva su un territorio e non soltanto la testimonianza di un passato sempre più lontano.

Per quel che riguarda le culture popolari, il veicolo è stata per millenni la trasmissione orale tra le generazioni dei saperi necessari alla loro conservazione, intesi sia come capacità pratiche di sopravvivenza che come immaginario collettivo. Essa ha funzionato nei secoli in modo parallelo alla cultura delle classi dominanti che ha imposto i suoi modelli di gestione del potere, avvalendosi in particolare del linguaggio scritto, ma senza mai riuscire, in sostanza, a scalfire il persistere nel tempo di una cultura alternativa anche se subalterna. Questo modello è entrato in crisi con l’industrialismo e con la scolarizzazione di massa che hanno dato inizio a un processo di disgregazione delle comunità locali, con le loro specificità, e a una loro integrazione nella società, termine estensivo per indicare la massificazione universalistica degli usi e dei costumi presso i vari popoli.

Si è assistito in pochi decenni alla depauperazione delle culture locali, a processi di deculturazione[1] e di acculturazione[2] che hanno omologato i comportamenti e l’immaginario collettivo al modello del consumatore contemporaneo. In questo contesto le culture locali hanno perso il loro senso e così le loro lingue, particolari e quindi inadatte a comunicare a strati sempre più larghi di popolazione il messaggio universale del consumo.

L’unica forma di reazione a questa distruzione epocale della multiculturalità dei territori si è avuta in quei contesti dove la rivendicazione identitaria delle popolazioni ha coinciso con istanze di natura politico indipendentista che hanno teso a recuperare la libertà perduta nel corso della Storia per operazioni di stampo colonialistico. Una di queste situazioni è senz’altro quella della Corsica dove, a partire dagli anni settanta del Novecento, è iniziato un processo, cosiddetto “riacquistu”[3], di recupero dell’identità locale sulla base anche di una rivendicazione di indipendenza nazionale.

La Corsica non ha ottenuto l’indipendenza, ma dall’inizio degli anni Duemila nelle scuole dell’isola è stato introdotto il bilinguismo[4] e il córso è stato riconosciuto a pieno titolo una lingua. In pratica la lingua della tradizione orale è assurta a ruolo di lingua colta, con tutti i problemi connessi alla sua trascrizione e alla necessaria fissazione di regole grammaticali. Lingua colta sì, ma seconda lingua, in un contesto in cui la lingua madre parlata dagli studenti è ormai il francese.

È possibile in questo modo salvare una lingua, tradizionalmente orale, dal suo declino? Personalmente credo che, se il córso rimane seconda lingua, sia destinato pian piano a diventare una lingua morta né più né meno che il vecchio latino che si continua a far studiare nei licei a studenti svogliati che lo detestano, non lo imparano e soprattutto lo dimenticano totalmente dal giorno in cui lasciano il liceo.

Altra cosa sarebbe se ci fosse la forza politico-amministrativa di fare una rivoluzione copernicana e invertire la gerarchia del bilinguismo: il córso come prima lingua e quindi strumento di insegnamento anche delle altre discipline (ci sono piccole sperimentazioni in questo senso, ma sembrano destinate a restare per sempre sperimentazioni), il francese come seconda lingua di appartenenza nazionale. Questo mutamento gerarchico, oltre a consentire il vero recupero culturale e linguistico della tradizione córsa rendendola immanente e attiva, non segnerebbe in senso negativo come per il córso il ruolo di seconda lingua del francese che continuerebbe, invece, ad avere un valore d’uso fondamentale per i madrelingua córsi in quanto strumento necessario di comunicazione con il livello burocratico-istituzionale dello Stato francese e con le altre popolazioni della nazione.

La proposta, che, così formulata, sembra senza corrispondenza con la realtà politica della Corsica oggi, cioè essere un dipartimento della Francia, appare meno scandalosa e fantomatica se si prende in esame il caso di una minoranza linguistica italiana, quella tirolese, all’interno della regione a statuto speciale Trentino-Alto Adige. Nel Sud Tirolo (Alto Adige è il termine italiano utilizzato per questo territorio che corrisponde alla provincia di Bolzano) vige il bilinguismo, anzi, nelle scuole addirittura il trilinguismo in quanto la struttura scolastica è organizzata in base alla lingua madre di appartenenza: ci sono le scuole italiane per studenti di madrelingua italiana, quelle tedesche per studenti di madrelingua tedesca e quella ladine per studenti della minoranza ladina (30.000 abitanti complessivamente). Ma mentre nelle scuole italiane l’insegnamento delle materie si fa in italiano e in quelle tedesche in tedesco, nelle scuole ladine l’insegnamento è svolto al 50% in italiano e al 50% in tedesco e non nella lingua madre ladina. La seconda lingua, tedesco o italiano, viene insegnata per un massimo di sei ore settimanali come materia di studio[5].

In Sud Tirolo è stata dunque rispettata in modo esemplare l’appartenenza linguistica, condannando tuttavia la seconda lingua, in quanto elemento di caratterizzazione etnica, alla marginalità di interesse e di uso. E se non ci sono problemi di perdita di identità (nella vita extrascolastica i gruppi etnici, tranne i ladini, usano la lingua della scolarizzazione), c’è il rischio però di un’eccessiva sottovalutazione (avversione?) da parte dei gruppi (in particolare quello di madrelingua tedesca) della seconda lingua che non viene vista né come un’opportunità di conoscenza e di integrazione reciproca né come codice espressivo di una grande tradizione culturale e letteraria.

È stato forse più facile per i tirolesi che per i córsi, al di là della diversità dei contesti politici, mantenere la loro lingua e le loro tradizioni perché parlano il tedesco, lingua dominante nella sorella Austria, in Svizzera e in Germania? Sicuramente sì, anche perché trattasi di lingua colta, di grandi tradizioni, radicata nell’oralità e nella scrittura, ma il caso è assolutamente emblematico di come si possa stare in uno stato mantenendo la propria cultura e identità completamente diverse dalla cultura dominante di quello stesso stato.

Se, tuttavia, questo ribaltamento gerarchico del bilinguismo non è possibile (ma questo è un problema che dovrebbe affrontare il governo dell’isola nel quale, attualmente, prevale uno schieramento autonomista) che cos’altro si può fare affinché la lingua e la cultura córsa si preservino concretamente nel tempo e non soltanto sul piano burocratico?

Innanzitutto bisogna puntualizzare che le lingue madri non dominanti sono in genere legate al passato, al mondo dell’arcaicità rurale, nella forma dell’oralità. Anzi, sono il linguaggio per eccellenza di quel mondo che tramite esse ha espresso i suoi contenuti sociali, economici, tecnici e fantastici. Tutto il lessico necessario per esprimere la cultura materiale della ruralità e delle attività artigianali ad essa connesse è frutto di quelle lingue, mentre le lingue dominanti non si sono mai preoccupate di adeguare il loro linguaggio alle esigenze del mondo rurale.

Il mutamento avviene con l’esplosione dell’industrialismo: le lingue dominanti, espressione dell’imprenditoria borghese moderna, diventano il linguaggio della nuova economia e lo saranno in tutti i successivi passaggi della rivoluzione industriale fino alla svolta informatica. Le lingue non dominanti rimangono ferme, non sono più produttrici di neologismi e, quando li esprimono, fanno semplicemente dei calchi dai termini delle lingue dominanti. Diventano lingue subalterne, sempre più settoriali, utilizzate soltanto da determinate categorie sociali e fasce di età. Ma sono lingue di identità millenarie, che raccontano le radici di un popolo, la memoria locale di eventi memorabili della Storia e le consuetudini di vita giornaliere dei contadini che, non bisogna mai dimenticarlo, hanno rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione fino alla metà del secolo scorso.

Del resto la ruralità, anche se oggi nei paesi occidentali riguarda il 4 o 5% della popolazione attiva, è tuttora il cuore indispensabile delle nostre società avanzate, l’unico settore della vita sociale ed economica dei nostri paesi nel quale è sopravvissuto un sistema di valori arcaici comunitari che altrove si è trasformato nella deregolazione selvaggia delle relazioni. Un mondo che abbiamo rischiato di avvelenare con la chimica e che oggi vuole tornare alla normalità produttiva dei procedimenti biologici sia per se stesso che per il beneficio dei consumatori.

Noi crediamo che, proprio per queste caratteristiche storiche e strutturali, non si possa prescindere dalla ruralità nella formulazione di progetti di recupero linguistico. Anzi, siamo fermamente convinti che soltanto in ambienti rurali e di piccolo artigianato connesso sia possibile portare avanti progetti di recupero linguistico concreti, che diano risultati nel corpo sociale e non nelle statistiche burocratiche.

Questo la politica può farlo se davvero crede al valore e all’importanza anche per il presente dell’identità rurale perduta. Ad esempio, si potrebbero fare dei progetti di “rientro” in agricoltura, allevamento e artigianato di coppie giovani che parlino la lingua madre e che s’impegnino, credendoci, a insegnare ai loro figli quella stessa lingua senza preoccuparsi che così facendo (come veniva detto ai nostri genitori negli anni cinquanta del Novecento) l’apprendimento scolare della lingua dominante possa risultarne compromesso. Ciò consentirebbe di ricostituire situazioni di dialogo omolinguistico all’interno dei nuclei familiari, l’unico modo per consolidare identitariamente una parlata e una lingua. L’approccio scolastico al bilinguismo esistente sarebbe in questo caso positivo, perché il parlante troverebbe nell’insegnamento scolastico della lingua madre il completamento della sua esperienza linguistica primaria.

Qualcuno potrebbe definire questa soluzione di legare le sorti della lingua madre alla ruralità una sorta di ghettizzazione della lingua stessa, una rinuncia a un ruolo più generale di interazione linguistica rivolta a tutti. Noi, invece, riteniamo che sia un modo concreto e realistico di salvaguardare una lingua, l’unico che possa garantirla da processi di “meticizzazione” dei linguaggi, sempre più impregnati di termini delle lingue superdominanti (vedi l’inglese oggi, e diciamo “oggi” convinti che presto avrà la concorrenza di altre lingue).

Un tentativo di superare il bilinguismo potrebbe essere anche il plurilinguismo da attuare con i cosiddetti “percorsi d’immersione linguistica”[6] a partire dalle scuole per l’infanzia. Questi percorsi partono dal presupposto che le lingue a scuola si possono imparare solo se vengono usate per apprendere i contenuti delle materie di studio e non studiandone la Grammatica, che ha invece un’altra funzione: far riflettere gli studenti sulla lingua dopo che l’hanno appresa affinché prendano consapevolezza della correttezza delle sue espressioni.

Non c’è dubbio, infatti, che l’apprendimento di più lingue (e non esclusivamente dell’inglese come lingua mediatrice) sia il futuro della comunicazione interattiva che solo in questo modo può comprendere a fondo le diversità culturali, cogliendo significati e significanti specifici di ogni lingua che invece, attraverso la mediazione, spesso vengono perduti. È chiaro che questa impostazione prevede una rivoluzione del sistema educativo e di apprendimento che sfrutti la particolare disponibilità che hanno i bambini all’apprendimento dei linguaggi e nello stesso tempo un sistema di relazioni internazionali che preveda lo scambio culturale sistematico di servizi educativi tra i diversi stati. Ma anche in questa situazione, secondo noi, non è possibile prescindere da un baricentro linguistico e psicologico originale di ciascun individuo che diversamente non sarebbe in grado di comunicare, nella varietà dei linguaggi, la sua peculiarità individuale e culturale come valore di scambio e di integrazione. Ciò rappresenterebbe un passo avanti nella costruzione di un immaginario umano ricco di diversità e più capace quindi di apertura e di accoglienza nei confronti dell’altro.

In conclusione, se davvero si vogliono salvaguardare e stimolare le diversità linguistiche come fattori di arricchimento culturale e di confronto tra i popoli, bisogna preservare o ripristinare con esse i presupposti sociali ed economici che le hanno generate, favorendo progetti pubblici e privati che abbiano al centro il recupero di quelle forme tradizionali di convivenza comunitaria che la globalizzazione del consumo sta spazzando via inesorabilmente.

[1] Il termine “deculturazione” indica il processo di distruzione di una cultura da parte di un’altra dominante, in genere quella del popolo colonizzatore.

[2] Il termine “acculturazione” fu introdotto nel linguaggio etnologico dallo statunitense Powell J. W. per indicare il processo di adattamento alla cultura e ai modi di vita dei coloni americani da parte degli indiani delle praterie; fu poi esteso agli effetti culturali di tutte le colonizzazioni.

[3] Grande “movimento” trasversale alla società civile corsa che cercò, in vari ambiti, di recuperare cultura e tradizioni dell’isola fino a richiedere, in alcune sue espressioni, l’indipendenza della Corsica dalla Francia.

[4] La cosiddetta “procedura di Matignon”, svoltasi nel periodo in cui fu primo ministro Lionel Jospin, portò alla promulgazione, il 22 gennaio 2002, da parte dell’Assemblea Nazionale francese di una legge sulla Corsica che rese la lingua córsa “una materia insegnata durante l’orario normale di lezioni delle scuole materne ed elementari di Corsica”.

[5] Vedi sito Amministrazione Provincia Bolzano, Formazione e lingue.

[6]L’immersione linguistica è una pratica didattica introdotta a partire dagli anni ’60 in Canada, e precisamente nel Québec, per consentire agli studenti di lingua inglese di apprendere più facilmente la lingua della minoranza francese. Essa consisteva nel far utilizzare loro questa lingua nell’apprendimento dei contenuti di alcune materie di studio in modo che l’acquisizione avvenisse per interesse e per necessità e non per la poco stimolante via linguistico-grammaticale. Tale pratica è oggi molto usata per l’apprendimento delle lingue anche negli Stati Uniti d’America.

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