Pubblicazioni

My name is Jack vol.2

Il Peccato s’iniziò nell’Eternità e non poserà per l’Eternità, / fin che sue Eternità non s’incontrino. Ah! perduto! perduto! / perduto per sempre!” Fecero peccato Paolo e Francesca? O il loro amore meritava il paradiso? Oppure, come sostiene Blake …

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2022


My name is Jack vol.1

Se le porte della percezione fossero purificate, / ogni cosa apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinita. / Perché l’uomo si è imprigionato così / da veder tutto attraverso le crepe della sua caverna”. È rammentando questi versi di William Blake che ho intrapreso a scrivere questo testo autobiografico

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2022



Siamo i ribelli

La resistenza viene da lontano

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2020


Un calcio al passato

Storia di un ragazzo innamorato del pallone.

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2019


A Léngua da Memória

Poesie in forma di canzone

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2018


Marx, Fidel e il “Che” e, perchè no?, No Tav e Costituzione

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2018


“Ieiettu”

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2016


La Cinghialotta Eugenia

Fiaba ecologica per grandi e piccini
Illustrazioni di V. Bevilacqua e M. Cacciola

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2015


Teatro della memoria

L’esperienza del laboratorio della teatralità

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2015


La comuntà invisibile

Il “lungo addio” alla ruralità.

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2014


Il sapore della terra

Viaggio nell’immaginario enogastronomico delle valli dell’Appennino piemontese.

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2013


Come le lucciole

Seconda avventura di Stefano Bisio, il “Detective immaginario”

Tip. Pesce, Ovada 2012


Per non morire di deculturazione

Materiali per un territorio

Tip. Pesce, Ovada 2011


Batte il mio cuore batte

Tip. Pesce, Ovada 2010


Due storie partigiane

Tra memoria e racconto.

Ed. Le Mani-Microart’S , 2009


Una macchia di sangue sulla fronte

Racconto delle vicende della vita, della predicazione e della morte di David Lazzaretti, il “Profeta dell’Amiata”.

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2007


Il detective immaginario

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2006


Giallo Padùle e altri racconti

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme, Ovada 2005


Le pietre della Benedicta

Parole e immagini per non dimenticare.

Libro + DVD

Tip. Le Mani, Recco 2005


Il vecchio della Fuìa

Tip. Pesce, Ovada 2004


I santuari della pietra viva.


Itinerari artistico-naturali lungo le valli del Piota e del Gorzente,

Tip. L’ Artistica, Savigliano 2002


L’uomo del mistero

Guida pratica e sintetica ai luoghi, alla vita e alle opere di David Lazzaretti, profeta dell’Amiata.

Tip. Effegi, Arcidosso 2001


“Canottiere terse di luna”

Tip. Pesce, Ovada 1999


“Careghè”

Ed. Guaraldi, 1996


“Careghè”

Di là dalla colma, sulla via delle Capanne.

Ed. Accademia Urbense, Ovada 1995


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My name is Jack vol 2.

Il Peccato s’iniziò nell’Eternità e non poserà per l’Eternità, / fin che sue Eternità non s’incontrino. Ah! perduto! perduto! / perduto per sempre!” Fecero peccato Paolo e Francesca? O il loro amore meritava il paradiso? Oppure, come sostiene Blake, il matrimonio del Cielo con l’Inferno? “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fi tolta… ” “Amor, c’ha nulla amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona.” dice Francesca a Dante e lui, che pure ha votato se stesso soltanto alla parte celestiale dell’amor, di fronte a questo loro “prendersi”, a questa passione che ancora li avvince, si commuove a tal punto che sviene per l’emozione. “Coloro che domano il Desiderio lo fanno perché il loro Desiderio è abbastanza debole da lasciarsi domare; e il domatore o Ragione ne usurpa il posto e lui riluttante governa. Ed essendo frenato esso diviene grado a grado passivo fin che non è più che l’ombra del Desiderio”. Forse Dante, svenendo, pensava già a questa parole di Blake…

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My name is Jack vol 1.

Se le porte della percezione fossero purificate, / ogni cosa apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinita. / Perché l’uomo si è imprigionato così / da veder tutto attraverso le crepe della sua caverna”.

È rammentando questi versi di William Blake che ho intrapreso a scrivere questo testo autobiografico. E l’ho fatto nel pieno della pandemia, la nostra terza guerra mondiale. Di fronte all’incertezza del presente e del futuro, ho cominciato a fare i conti con il mio passato e mi sono “salvato” grazie ad esso, a quel “matrimonio del Cielo e dell’Inferno” che è sempre stato. Ma non è dal virus che mi sono salvato – questo lo ha deciso e lo decide lui se mai – ma dall’angoscia di quel primo lockdown che ci ha segnato tutti per sempre. Ripercorrere il mio immaginario ha pian piano dissipato quelle “fitte tenebre” che “si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante” e ho scoperto che “ho vissuto” così come diceva Neruda. Con la gioia entusiastica di un bambino.

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La solitudine del paesano e altri saggi.

C’è chi guarda la televisione tutto il giorno, chi fa viaggi periodici organizzati, chi passa le sue giornate nei supermercati, chi si rifugia negli hobby, chi segue i nipoti come reliquie, chi si siede nel viale o nella piazza facendo il contropelo a questo o a quello, chi continua a lavorare forse per dimenticare… Ma c’è anche chi non riesce a mandare giù che un mondo, una cultura sanguigna ed effervescente come quella di un paese sparisca così, per sempre, magari ancora prima che sparisca lui. E allora rimugina su come sia potuto accadere, su quali siano gli sbagli che abbiamo fatto oppure se tutto ciò fosse un destino ineluttabile indipendente da noi, e si sforza di capire, e continua a lottare per tornare indietro nonostante veda tutto scivolare via travolto da una piena, e continua a soffrire. Ma soprattutto si sente solo, in un mondo che non è più il suo.

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Siamo i ribelli

Questo libro non è il frutto del mio “accanimento terapeutico” sulla questione Resistenza, ma è un ulteriore tentativo di proporne la Memoria in modo attivo, stimolante e attuale, affinché non diventi un simulacro decrepito e stantio di un’epoca ormai finita. E questo perché sono fermamente convinto che, qualora la Memoria in generale e questa Memoria in particolare vengano considerate un ingombro, se non addirittura un intralcio, ad una crescita civile del nostro paese, certi atteggiamenti autoritari che traspaiono già in alcune democrazie europee potrebbero affermarsi anche qui da noi e riproporci – magari in modo farsesco, ma comunque terribile – l’intolleranza e la violenza che, poco più di settant’anni fa, sconvolsero la vita di milioni di italiani.

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Un calcio al passato

È la storia di Miro, un funambolo del calcio, che fin da bambino era così innamorato della palla che la prima parola che disse, ancora prima di “mamma”, fu proprio quella, “palla”. Un amore cresciuto negli anni per un gioco, diventato poi anche un mestiere, che è stato, prima del delirio televisivo e consumistico odierno, il gioco più bello del mondo. Ma senza mai rinunciare ad essere se stesso, alla propria dignità di uomo e alla memoria delle sue radici. E tutto questo con la grazia che solo i “mancini” hanno avuto in dono da Dio.

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Marx, Fidel e il “Che” e, perchè no?, No Tav e Costituzione

Karl Marx, il filosofo de Il Capitale e della rivoluzione proletaria, un uomo, però, soprattutto innamorato di sua moglie, Jenny von Westphalen, bella, colta e aristocratica, ma affascinata dalle idee del marito. Fidel Castro, il lider maximo di Cuba, per molti un campione degli oppressi e degli sfruttati, per altrettanti un dittatore feroce e senza scrupoli. Che Guevara, il mitico guerrigliero argentino protagonista della rivoluzione cubana e della guerriglia internazionalista in Congo e in Bolivia, teorico dell’uomo integrale, un uomo nuovo che avrebbe dovuto anteporre il bene comune a qualsiasi interesse personale.

“A TutTA Velocità! Storia italiana di ordinarie bugie”, il racconto dell’opposizione NO TAV al progetto del Terzo Valico dei Giovi dai suoi primi inizi, nel lontano 1991, fino al 2005. La ragione? Perché è un’opera costosa, inutile e dannosa costruita sulle spalle dei contribuenti. “La Costituzione attraverso i principi”, una carrellata dialogica sui principi fondanti della Carta Costituzionale, accompagnata da canzoni del repertorio popolare che puntualizzano alcune questioni storiche, civili e sociali della vita del nostro paese. Cinque pezzi teatrali, tutti con lo stesso denominatore: combattere le ingiustizie. Che i protagonisti ci siano riusciti, spetterà ai lettori giudicarlo.

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Ieiettu

Ieiettu è il vero ritratto dell’antieroe. Nato sotto una cattiva stella, non poteva crescere in altro modo che al di fuori della norma. La vita di paese di quell’inizio del Ventesimo secolo richiedeva molta intraprendenza da parte di chi veniva da una famiglia povera. Ma, come si dice, anche i rovi danno frutto. E anche Ieiettu avrà, in mezzo a fatti colmi di risate, le sue ore di gloria e di felicità.

Con questo racconto di ispirazione paesana l’autore ci fa respirare un’aria che, per la maggior parte di noi, ha perso il suo profumo di macchia, avvezzi come siamo a pensare a un mondo trasformato da tanti modernismi.

Nato nel 1931, l’autore ha vissuto in Corsica l’infanzia e la gioventù, e poi ha fatto carriera in quella che fu la “Coloniale” (soldati e burocrazia francese in servizio nelle colonie). Quelle terre lontane hanno soddisfatto per una ventina d’anni il suo desiderio di avventura. Dopo gli anni del “riacquistu” ( il recupero della lingua e della tradizione corsa negli anni Settanta del Novecento), si è dedicato alla sua passione per i cavalli e a gironzolare attraverso tutta l’isola. Nel ’79, è stato uno dei fondatori dell’Associazione del Turismo Equestre e del Cavallo Corso. Oggi si dedica alla scrittura: romanzi, novelle, poesie, teatro e traduzioni. La qualifica di “attivista culturale” gli calza a pennello.

Introduzione
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Dello stesso autore

Racconti:
À Cavallu(Sammarcelli, 1999), selezione del Libro Corso,

Novelle:         
A mula di Ciccolu” (in Vicini, Albiana, 1998) Premio della Biennale Corso-Sarda di Ozieri,
U cavallu Salvatore, (in Bonanova, 2005) Premio di racconti Corso-Sardi d’Aggius.

Romanzi:                      
Amadeu u turcu(Albiana, 2002), Premio del Libro Corso
U viaghju di a Fortunate(Albiana, 2007),
Babbò… ou l’enfant retrouvé(Albiana, 2007),
“Corsicana”, (Sammarcelli, 2011),
“L’affreschi di a Santa Trinità”, (Fior di carta, 2012), Premio dei lettori,
“Ieiettu” (Albiana, 2013), Premio Don Joseph Morellini,
“Ostrisorma” (À fior di carta, 2014),
“Medioevo, trilogia.” (À fior di carta, 2015).

Altri :
Cavalcate. (in “Aliti”, Albiana, 2004), Primavera dei poeti.
Mitologia (Albiana, 2005), illustrazioni di Toni Casalonga, 
Petite Encyclopédie du Cheval Corse” (Albiana, 2006),
“Favule” (Albiana, 2010), Premio dei lettori della CTC,
“Pigna, village de Balagna. Monographie” (Accademia, 2015).

Traduzione :
“Le marcheur de l’oubli”, de Brancion, (Lanskin, 2006),
“Quattru canzone gialle” di F. Garcia Lorca, (Albiana, 2007), illustrazioni di T. Casalonga.

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Il detective immaginario

E’ la storia di un ex – insegnante in pensione “baby”, separato con figli, che vive con la madre vedova a Genova, città in crisi d’identità cronica. Stefano Bisio, questo è il suo nome, ha aperto con i soldi della liquidazione uno strano ufficio double face: da un’entrata si accede all’ “Officio recupero mariti e mogli separati” (la parola “officio” è voluta e leggendo il testo se ne capisce la ragione), dall’altra all’ “Ufficio viaggi immaginari”.


Essi rappresentano la concretizzazione commerciale di due istanze analitiche che Stefano ha nei confronti della società: la prima è la convinzione che nei rapporti di coppia esistano dei meccanismi di stimolo – risposta assolutamente oggettivi che, una volta conosciuti, consentono di intervenire a determinare i fatti; la seconda è la certezza che il viaggio inteso come esperienza fisica abbia perso, nell’epoca del consumismo estremo e dell’occhio onninvasivo della telecamera, il suo fascino esotico e che non resti ormai che l’ebbrezza dell’immaginario per chi voglia ancora “viaggiare” per davvero. A questo punto tutto parrebbe ridursi semplicemente allo sfogo fantastico di un ex – insegnante bizzarro, se non intervenisse l’imprevisto a complicare maledettamente le cose. Un giorno nell’ “Officio recupero mariti e mogli separati” si presenta la moglie di un operaio a lamentare la sparizione del marito. Sostiene che a circuirlo sarebbe stata addirittura una signora dell’alta borghesia genovese che lo terrebbe segregato nella sua villa di Boccadasse. Stefano cerca invano di convincere la donna a rivolgersi alla polizia in quanto non se la sente di affrontare un caso del genere. Ma poi finisce per lasciarsi coinvolgere e da quel momento il racconto si sviluppa come un thriller investigativo, a metà strada tra realtà e fantasia, con il protagonista costretto ad inseguire una misteriosa nave greca per i mari d’Europa. Il tutto accompagnato da un incalzare continuo di riflessioni su vari aspetti della vita, che traggono in genere spunto dalle citazioni letterarie che Stefano fa quasi a suggello di ogni capitolo. Dopo alterne vicissitudini, un arresto sospetto a Barcellona, una pellicola fotografica che non resta impressionata, un paio di aggressioni subite e strani incontri con personaggi ambigui e misteriosi, finalmente Stefano riesce a salire sulla nave ad Amburgo e a scoprire la verità. Che gli si presenta sotto forma di sogno ad occhi aperti, a cui egli s’abbandona nostalgicamente, sempre più convinto che, come gli dice l’operaio Cavagna, “sognare è forse vedere”. Il recupero finale della memoria storica della propria origine sociale e il riconoscimento del suo ruolo di bussola dell’esistenza sono il punto di arrivo imprevedibile ed emblematico di tutta quanta la vicenda.

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Le pietre della Benedicta

“Le pietre della Benedicta” è un percorso audiovisivo nella Storia e nella Memoria che ha come  protagoniste le pietre delle Valli del Piota e del Gorzente. Pietre che raccontano, dal loro punto di vista “altro”, insieme fisico e metafisico, la Storia geologica e umana, troppo umana, della nostra montagna appenninica, fatta di boschi scoscesi e di tenace lavoro, di acque limpide e di torbidi eventi, di arte naturale e di intuizioni filosofiche e poetiche.
Ecco che, improvvisamente, un evento simbolo della nostra Storia più recente e più dolorosa, l’eccidio dei partigiani della Benedicta nei giorni della Pasqua del 1944,ci appare in tutta la sua tragicità non solo umana, ma cosmica,

come negazione di un percorso armonico uomo-ambiente che si compie dialetticamente da millenni secondo un disegno di necessità biocentrica; un atto di hybris, che ne echeggia altrettanti vicini e lontani, di tale violenza da “lasciare di pietra” le pietre stesse che hanno, però, la sensibilità, ritenuta presuntuosamente solo umana, di commuoversi e di aiutare coraggiosamente i ribelli. Un monito etico-artistico per tutti quegli uomini che, boriosamente antropocentrici, si scannano spesso e volentieri per il potere, mettendo a rischio anche gli “altri” abitanti della Terra e i loro delicati ecosistemi, inconsapevoli che “neanche la roccia di mille battaglie conosce il senso eterno della vita”. Con il rischio che, quando cadrà “l’ultimo diaframma”, si accorgano, ormai troppo tardi, “che è stato un sospiro, soltanto un sospiro”. Per fortuna basta che un ragazzo con una chitarra, seduto sui gradini del sacrario, colga il senso di quella tragedia e trovi la forza per cantarla, perché quei morti nelle fosse si riscuotano e comprendano che il loro sacrificio non è stato vano e “anche i ragazzi di oggi non li vogliono dimenticare”.

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Giallo Padùle e altri racconti

Quattro racconti che hanno un denominatore comune, la vendetta, intesa come peculiarità oscura e irrinunciabile della condizione umana. Uno sgarro paesano risolto con una faida, una vendetta partigiana consumata dopo quarant’anni, la caccia disperata di un padre ai rapitori di suo figlio e, infine, un breve apologo sull’incomunicabilità, la vendetta del silenzio. Tutto permeato dal respiro ancestrale del mondo contadino.

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Il vecchio della Fuìa

È la storia di un ritorno alle proprie radici paesane dopo un’assenza di vent’anni. Ovvero di ritorni periodici in vacanza che però non sono un vero e proprio ritorno, anzi, rischiano di allontanare sempre di più. Perché ritornare vuol dire condividere in tutto e per tutto un luogo, nella sua Memoria e nella sua vita quotidiana che magari si sta inesorabilmente allontanando da quella Memoria. È il coronamento del sogno di un uomo legato alla sua terra e nello stesso tempo l’inizio della sua straziante agonia di paesano in un paese che non c’è più.

Ma nel libro l’incontro tra G. e Francesco, il vecchio della cascina Fuìa, sospende per una notte questa ineluttabile agonia e fa ripercorrere al protagonista luoghi e vicende della Memoria che si dipanano tra magia e mistero, nel buio della cucina, incrinato appena dalla stufa accesa, mentre il “coro” della pioggia, con le sue diverse voci e intensità, scandisce i tempi del racconto. Vengono rievocate le masche, le “leggere”, i “mediconi”, i partigiani della Benedicta, un oscuro delitto passionale in una cascina, un “pazzo” di Dio in fuga dall’amor profano, la vita grama della montagna, l’epopea dei buoi “montagnini”, l’ultimo dei lupi e i “contafóre” itineranti, come una sorta di nuova iniziazione per riannodare il filo che si stava spezzando.

Quando all’alba G., il protagonista, saluta il vecchio per rientrare in paese indugia “a guardarlo ancora un istante e nella sagoma e nelle movenze gli parve di riconoscerci suo padre: la stessa attaccatura fisica, propria di chi era abituato a lavorare fin da bambino, la stessa postura, frutto di fatiche disagevoli perpetrate nel tempo, la stessa determinazione nell’affrontare il lavoro come se si trattasse sempre di vita e di morte. Del resto erano quelle le radici della sua gente e per quanto avesse girato non avrebbe mai potuto trovare altrove i suoi riferimenti: quei visi e quelle braccia scavate erano qualcosa che aveva giù nel profondo e lo rendeva partecipe di una storia millenaria che aveva avuto la fortuna di poter intravedere. E allora, orgoglioso di tanta fortuna, giurò a se stesso che non l’avrebbe più dimenticata”.

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L’uomo del mistero

Si tratta di un volume agile e stimolante che offre a coloro che desiderano avvicinarsi alla figura e all’opera del profeta dell’Amiata e dei suoi seguaci un utile e completo strumento di conoscenza, articolato in capitoli sintetici e precisi che ricostruiscono la vita, la formazione, la concezione teologica ed escatologica del riformatore di Arcidosso, il profilo umano dei suoi seguaci, l’esperienza di una radicale utopia sociale, la realtà socio-economica della montagna, il tutto raccontato sia con chiarezza e accessibilità di linguaggio sia con  rigore e scrupolo intellettuale.

Il libro infine è arricchito da un’ampia ed interessante appendice fotografica dove sono raccolte illustrazioni e iconografie conservate e visionabili presso il Centro Studi di Arcidosso, uno spaccato di forte contenuto emotivo ed evocativo dei protagonisti, dei luoghi, dei simboli e dei cimeli legati a quella straordinaria vicenda, che aggiunge ulteriori e stimolanti elementi di conoscenza.

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Due storie partigiane

Raccontare la Resistenza intrecciando la memoria di chi l’ha vissuta con l’immaginario di chi l’ha sentita raccontare è il passaggio necessario per la costruzione di un epos. E ogni popolo, per sviluppare la sua storia, ha bisogno di epopee di riferimento, in cui il bene trionfi sul male. Rinunciare a questa memoria determina pericolosi relativismi in base ai quali non si sa più che cos’è il bene e che cos’è il male.

Ma quando un popolo lotta per la sua libertà, lotta per il bene più grande nella vita di un uomo. Chi l’ha fatto in quegli anni terribili ha fondato, consapevolmente o inconsapevolmente, l’epopea più gloriosa della storia del nostro paese

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Un carabiniere piemontese, il profeta amiatino David Lazzaretti, i servizi segreti del nuovo stato unitario: un racconto spionistico che scandisce l’ineluttabilità del potere e della sua rete di connessioni e dimostra quanto sia vano ogni tentativo individuale di ribellione.

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La Cinghialotta Eugenia

Illustrazioni di V. Bevilacqua e M. Cacciola

Immaginate di crescere in un campo di concentramento. Di essere messi poi in libertà in una zona controllata militarmente. Di avere sulle spalle un destino di morte che si rinnova a ogni stagione. Di essere la vittima dell’ennesimo gioco perverso ideato da un’altra specie. Come vi sentireste? Esattamente come i cinghiali dell’Appenino ligure-piemontese da quando furono reintrodotti in quell’ambiente a scopo venatorio circa trent’anni fa. Intento dell’opera è quello di avvicinare tutti, grandi e piccini, al mondo animale con un approccio che tiene conto soprattutto delle ragioni degli animali, visti come esseri viventi che hanno i nostri stessi diritti e pone l’attenzione ad uno dei problemi più delicati del rapporto uomo-animale: la caccia. Due volumi diversi, in un’unica confezione: uno rivolto ai più piccoli e in formato album, ricco di tavole colorate; l’altro, tradizionale libro di lettura e più denso di contenuti, rivolto ai meno piccoli e agli adulti in generale.

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Teatro di memoria

L’esperienza del Laboratorio della Teatralità Popolare dell’Ecomuseo di Cascina Moglioni ha rappresentato un momento importante dell’espressione artistica e culturale locale: l’aver posto al centro della scena la gente della nostra montagna con i suoi usi, costumi e tradizioni è stato come celebrare un rito antropologicamente arcaico e inserirsi nel flusso millenario della storia rurale delle nostre comunità. Spero, dunque, che questo lavoro di ricerca e di riproposta teatrale della vita della montagna e della ruralità in generale possa servire, oltre che di testimonianza, anche di riflessione prospettica per un futuro che, se vorrà andare avanti, dovrà necessariamente guardare indietro e riscoprire saperi e valori del nostro passato che ci possono ancora essere utili e che ora comunque ci mancano.  

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La comunità invisibile

Il senso della vita che sta alla base di una comunità rurale è quello della conservazione della terra e della trasmissione dei saperi che servono per governarla. Appartenere a una comunità vuol dire condividere questa impostazione, praticarla, rafforzarla, assumere un compito che ci hanno affidato i genitori e gli antenati. Un impegno civile nei confronti di chiunque viva sul nostro territorio, sia egli radicato da anni o da secoli oppure sia giunto soltanto da poco. Ma anche nei confronti di altre comunità vicine e lontane, magari su altri continenti, che condividono, però, la nostra stessa missione: preservare la memoria dei popoli e la multiculturalità della Terra. Noi crediamo che la comunità di villaggio sia il modo naturisticamente più “leggero” di stare sulla Terra e quello umanamente più “intenso” di condividere l’esistenza.

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Il sapore della terra

Polenta, stoccafisso, ravioli e agnolotti, “tuccu”, minestrone, cima, ripieni, frittelle, insalata russa, torta di riso, latte dolce, Dolcetto, Barbera e Gavi sono i protagonisti di racconti di memoria, di dialoghi e di monologhi, frutto del lavoro di ricerca che Gianni Repetto sta conducendo da anni su tutti gli aspetti della nostra tradizione locale riproponendoli con diverse forme di espressione: dal romanzo alla poesia, dalla memoria orale al dialetto, dal teatro al documentario.

“Il sapore della terra” è un’ulteriore occasione per ripensare al nostro passato in funzione del nostro presente, per non dimenticare che abbiamo una storia e un’identità ben precise senza le quali i nostri paesi non sarebbero più comunità locali, ma soltanto quartieri periferici del villaggio globale.

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Come le lucciole

Seconda avventura di Stefano Bisio, il “Detective immaginario” ideato da Gianni Repetto. Questa volta il protagonista, che nel primo libro inseguiva una misteriosa nave greca in giro per l’Europa, ritorna a L., il paese d’origine dei suoi genitori, per una breve vacanza con la sua strana famiglia allargata. Tutto sembra svolgersi come una piacevole villeggiatura sulle colline del Monferrato, finché un giorno va a trovarlo Nan, un vecchio amico di suo padre, ex partigiano della III Brigata Liguria, e gli racconta una vicenda scabrosa accaduta negli anni della Resistenza. Da quel momento Stefano viene risucchiato nel vortice di una storia che lo riporta indietro a quell’epoca in mezzo ai rischi e alle stesse passioni di allora. Pallottole vaganti nelle calde sere dell’estate, un ex partigiano impiccato in modo sospetto, un viaggio in Corsica per incontrare un testimone chiave della vicenda che si trasforma in un calvario: il paese ritrova i suoi guerrieri, un po’ attempati, ma più che mai decisi a difendere i loro segreti anche dopo sessant’anni, come se ancora ne temessero le conseguenze. Ed è proprio contro la paura della verità che si battono Stefano e Nan, una paura che nemmeno l’impunità di cui godettero già allora i protagonisti riesce ad esorcizzare. Tra di loro circola una tacita, ma inequivocabile parola d’ordine: chi parla è un traditore e va giustiziato prima che faccia troppi danni. E anche il detective venuto da Genova deve subire la stessa sorte. In un rocambolesco finale di stampo “western”, avvolta in uno “sfolgorio incandescente” di lucciole, la drammatica resa dei conti.

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Per non morire di deculturazione

Il territorio di riferimento è l’Alto Monferrato Ovadese, comprensivo delle colline tra Ovada e Gavi e della montagna appenninica che sale fino a Capanne di Marcarolo, sede dell’omonimo Parco Naturale. Ma i problemi proposti credo siano riscontrabili in qualsiasi altra area che abbia le stesse caratteristiche morfologiche e di tradizione colturale.
Il libro nasce come una riflessione su ciò che rimane della nostra cultura rurale e su quanto essa possa ancora “contare” nella storia futura del nostro territorio.

È un’analisi cruda, preoccupata, anche un po’ risentita nei confronti di chi, politici e amministratori, ha voluto o ha assistito passivamente alla distruzione di una cultura millenaria.
Il volume si articola volutamente in tre sezioni, precedute da quattro prefazioni che sono già un’anticipazione sincretica dei suoi contenuti.
La prima sezione è dedicata alla Storia e alla Memoria e alterna, secondo la sua denominazione, testi di rievocazione storica, di memoria orale e di “viaggio” sul territorio con un intento di contenuto, la riproposta di alcune peculiarità che contraddistinguono questo territorio, e di metodo, le forme di scrittura che possono meglio caratterizzare le peculiarità evidenziate.
La seconda sezione riguarda l’identità, questione complessa e spesso ambigua.
Qui la forma di scrittura assume le caratteristiche del saggio e, pur con frequenti riferimenti alla realtà locale, si concentra essenzialmente sullo scontro generale città-campagna, che nelle nostre società postindustriali vede la progressiva urbanizzazione delle campagne e la trasformazione dei nuclei rurali in villaggi o ville-cascine residenziali.
Si pone poi il problema di quale forma di ruralità possa resistere in questo contesto o addirittura se sia ancora possibile lavorare la terra e sbarcare il lunario in condizioni di marginalità. La terza sezione propone brani di immaginario che rievocano la cultura contadina e la percezione della natura, il bosco, ma anche la coltura tradizionale della vigna, che aveva la nostra gente. Con un’insistenza sulla fisicità di questo rapporto, che ciò che rimane di quella cultura pare aver irrimediabilmente perduto. La sezione si chiude con un testo teatrale, “Storie di vigna”, che sull’onda del ricordo cerca di sollevare i problemi attuali della viticoltura.

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Careghè

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Il libro è la storia di un viaggio. Nel novembre del ’29 un contadino e suo figlio partono a piedi da Lerma, un piccolo paese del basso Piemonte alle propaggini dell’Appennino, per andare sui monti a fare delle sedie per i becélli, gli abitanti delle cascine della zona (il termine dialettale bécélli è oggi assolutamente privo di significato in quanto il versante piemontese dell’Appennino compreso nei territori dei comuni di Lerma, Tagliolo, Casaleggio Borio, Mornese e Bosio è pressoché spopolato). La vicenda si sviluppa in dieci capitoli, ciascuno dei quali coincide con una tappa in una cascina     diversa ed evidenzia un aspetto particolare di quella realtà etnica e sociale definitivamente scomparsa negli anni del boom economico. I personaggi incarnano alcuni tipi caratteristici di quel mondo, così come mi sono apparsi nella tradizione orale della mia famiglia e negli scampoli di sopravvivenza che ho avuto modo di conoscere nella mia infanzia. Ho ancora ben presenti i carri degli ultimi becélli che scendevano a valle a portare la legna ai paesani oppure le coppie di buoi montagnini con cui Miché d’Fanan o Bacicin della Cirimilla venivano a trainarci la bigoncía durante la vendemmia. Tutta la storia ha un presupposto reale (mio nonno e mio padre fecero effettivamente un “viaggio di lavoro” sull’Appennino nell’inverno del ‘29), sul quale ho cercato di innestare molti elementi del mio immaginario infantile, ricostruendo praticamente la dialettica che sarebbe intercorsa tra me e mio padre in una situazione analoga. In particolare ho insistito su un tema di fondo che ha occupato spesso la mia fantasia e che è stato condiviso da tanta altra letteratura fatta alle propaggini dell’Appennino: l’anelito verso il mare. E del resto questo sentimento, mediato a seconda del livello culturale, è una costante della mia gente. Genova per noi è il lavoro, il divertimento, il respiro sul mondo. E anche per Michele, il piccolo protagonista, lo scopo principale del viaggio è quello di raggiungere la cascina Sella da dove si può vedere il mare, l’oggetto del suo desiderio.

Tutti gli avvenimenti sono filtrati attraverso l’occhio del ragazzo, il cui metro di giudizio oscilla tra il moralismo paterno e la caparbia spontaneità dell’infanzia che spesso si trovano in aperta contraddizione tra di loro. La condizione particolare del viaggio determina tra padre e figlio una sorta di confidenza conflittuale che li porta a superare modernamente quella millenaria barriera gerarchica che condizionava tutti i rapporti nella famiglia contadina e impediva di fatto l’instaurarsi di un dialogo tra genitori e figli. E sia Paulin che Michele escono dal viaggio con delle certezze che finalmente coincidono. Entrambi infatti sono convinti che Michele un giorno se ne andrà per davvero. A questo punto interviene il fato. L’appendice «Una pietra al collo» lo introduce traumaticamente nella storia e risulta come una sorta di quadratura del cerchio nell’economia del libro. Lo stacco con tutto il resto è netto, perché la miseria, per quanto sia nera, non castra i nostri sogni, mentre la disgrazia, l’infermità e l’handicap fisico lasciano poco spazio alle illusioni. È vero oggi, figuriamoci nel 1929-30. La lotta allora sì che diventa di sopravvivenza. Anche questo è un elemento biografico reale della vita di mio padre. Proprio di ritorno da quel viaggio, nella primavera successiva, perse una gamba, la destra. E se non si è poi gettato nel Piota con una pietra al collo, ha dovuto però lottare in modo sovrumano per riuscire ad essere considerato una persona normale.

Per quel che riguarda la forma di scrittura, innanzitutto ho cercato di pensare tutta la vicenda in dialetto, così come ho spesso sentito ripetere certi fatti da mio padre e da altri miei parenti. Si poneva poi il problema di tradurla in un linguaggio italiano che non ne disperdesse le caratteristiche di immediatezza e di spontaneità. Nella parte narrativa ho dunque optato per una struttura del discorso poco complessa, nella quale prevalesse la paratassi, spesso anche inframmezzata da dei punti fermi. Ho inoltre fatto un uso frequente del “ché” causale-dichiarativo, che è un elemento linguistico ossessivo della nostra parlata, ma irrinunciabile per tentare di riprodurne il ritmo. Nei dialoghi in vece ho tradotto letteralmente le battute pensate in dialetto, mantenendo la posizione dei vari termini nella frase anche quando essa rischiava di stridere al con-fronto con la costruzione propria dell’italiano corrente. Infine nel testo sono state inserite alcune forme di racconto nel racconto. In particolare nel II capitolo (la rievocazione autobiografica della guerra), nel V (il racconto della storia familiare) e nel VI (il contafóre che narra la favola di Orsini, molto diffusa tra la mia gente, ma della quale non sono riuscito a trovare riscontro né nella raccolta di fiabe italiane di Calvino, né in quella di fiabe liguri di Boero e neppure in quella di fiabe piemontesi di Beccaria).

Per il reperimento del libro rivolgersi all’autore

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